giovedì 11 gennaio 2018

Addio alle armi, di Ernest Hemingway

Hemingway a 19 anni, a Milano nel 1918. Preso da Wikipedia

Il desiderio di leggere Addio alle armi è nato durante una delle numerose cene di Natale dell'ultimo periodo.

Immaginatevi la scena: intorno a una tavola imbandita a festa, tre coppie di amici festeggiano. In sottofondo gli schiamazzi allegri dei bambini, lasciati a loro stessi in un cantuccio della sala. D'un tratto, la conversazione piuttosto leggera passa di bocca in bocca fino a raggiungere un amico olandese nato a Singapore, cresciuto in Canada, sposato in Spagna e tornato a Singapore. Lui racconta di suo padre ormai ultra ottantenne e della sua ossessione per i ricordi legati alla guerra. L'anziano signore ama far partecipe i suoi cari delle memorie di quei giorni lontani. Per ore, ogni volta che la famiglia del figlio va a trovarlo, costringe la nipotina a sorbirsi gli stessi racconti, tanto che il nostro amico spesso si vede costretto a chiedergli di cambiare argomento, di raccontare, ad esempio, dei suoi viaggi in mare, quando, dopo la guerra, faceva da capitano a una imbarcazione mercantile.
Di solito, racconta il nostro amico, l'invito viene accolto con una risatina apologetica: "Dai, lasciami finire. Del resto è stata l'avventura più grande della mia vita".

Alla battuta finale, che il mio amico racconta con un sorriso indulgente, io rimango pensierosa. Decido allora di raccontare la mia esperienza di figlia di soldato semplice della seconda guerra mondiale.

Mio padre non ci diceva molto della guerra. E quando lo faceva, parlava della notte di Natale di quell'anno in cui furono prigioniero dei tedeschi (per chi l'ha dimenticato, dopo la firma dell'armistizio nel '43 i tedeschi radunarono gran parte delle truppe italiane sparse sui vari fronti per rinchiuderle nei campi di prigionia, affinché non prendessero le armi contro di loro). La notte di Natale, dicevo, i tedeschi decisero di fare un regalo ai camerati italiani: per cenone, spaghetti al sugo.
Solo che il sugo, al palato raffinato dei soldati italiani, sapeva di marmellata, o forse più probabilmente di ketchup. Ma loro non si lasciarono scoraggiare. Corsero alla fontana, dove già una piccola calca impediva il passaggio, e deprecando il cattivo gusto dei tedeschi o il loro contorto senso dell'umorismo, sciacquarono gli spaghetti e se li mangiarono a piene mani, in fretta, perché la fame era tanta.
Oppure ci raccontava delle corse degli scarafaggi, quando lui e suoi commilitoni acchiappavano quelli più grossi per poi posizionarli su una linea di partenza immaginaria, sulla branda di uno di loro, e scommettevano sigarette fatte con bucce di patata sul vincente.
Noi bambini ridevamo delle sue avventure di guerra.

Col passare del tempo, i racconti si fecero sempre meno frequenti, un poco perché gli adolescenti sono meno pazienti con le narrazioni delle vite dei vecchi. Hanno troppa fretta di diventare attori di prima scena per ascoltare l'esempio di qualcun altro. Fino a quando ci si rende conto che si vorrebbe davvero sapere di più, ma ormai è tardi (mio padre morì quando io avevo 18 anni).

Nella mia infanzia ho sempre pensato alla guerra come a un'esperienza tragi-comica, senza rendermi conto che, dietro all'enorme cicatrice che mio padre portava su tutta una guancia e a cui noi bambini guardavamo come a un tratto naturale dei suoi lineamenti, c'era ben più che un vecchio sfregio. Sotto la pelle cicatrizzata c'era l'esperienza del terrore puro di essere colpito da una scheggia in faccia, e il dolore che le dita dell'ufficiale scavavano nella carne per strappare via quella scheggia, nella terra sporca della trincea.
Allora, ascoltando mio padre, io non me ne rendevo conto, come non mi rendevo conto di cosa significasse quella medaglia d'oro al valore tenuta in una piccola cornice appesa al muro e che oggi mio fratello porta ancora al collo in suo ricordo.

Adesso lo capisco meglio, anche grazie alla lettura di Addio alle armi di Ernest Hemingway. Capisco meglio anche la guerra, bestia feroce che non è fatta solo del fuoco nemico o della fame, ma anche del caso avverso, di una sfiducia incolmabile, della perdita o della rinuncia a ogni valore umano.

Hemingway trasmette al lettore questa lucida comprensione della guerra, e più in generale del mondo, in due modi stilistici e narrativi molto efficaci, anche se apparentemente inconciliabili: il primo è il modo delle frasi brevi, essenziali, fredde e staccate da ogni sostrato emotivo. Quello che si percepisce è un senso di profondo straniamento, quasi un'anestesia del sentire. Veloce e senza indugi, la voce narrante mette a fuoco gesti semplici, fotogrammi di un paesaggio e  di un'esperienza che non si interroga, non si ferma a soppesare e a dare un giudizio, ma subisce lo scorrere del tempo, dei luoghi, degli accadimenti.
L'altro modo narrativo, quello del flusso di coscienza, in un certo senso funziona come il primo, ma si rivolge a osservare l'interno, l'anima di un uomo che era riuscito quasi interamente a perdere la sensibilità e che d'un tratto si risveglia nel panico davanti a sentimenti perfettamente umani, come la paura per la morte di una persona amata.

Così lontano dallo stile di Alianello, letto solo qualche mese fa, eppure riesce allo stesso modo a coinvolgerti. Ma mentre il punto di vista di Alianello è quello di un uomo che vede infranti dalla guerra uno a uno tutti gli ideali in cui credeva e per cui lottava, in Hemingway la frantumazione c'è già stata. Il suo personaggio, in un certo senso, cerca di riemergere da una rassegnazione dell'anima, anche se raramente sembra farlo con consapevolezza o con convinzione. Fa parte anche questo della sua assenza di sensibilità, di numbness, come lo chiamano gli inglesi, rendendo bene l'idea.

Addio alle armi non finisce bene. E anche il titolo, secondo me, lo dichiara. Perché viene quasi da pensare che quelle armi, in verità, non siano i fucili della guerra, ma le armi che l'uomo assuefatto allo spettacolo dei campi di battaglia possiede per sconfiggere la sua incapacità di provare sentimenti umani. Il fallimento della sua guerra personale, un fallimento completo, che si riverbera in quello della guerra reale, sancisce la resa, la sconfitta, l'abbandono, probabilmente, di ogni tentativo di tornare a una vita da uomo normale.

Tirando le somme, mi è piaciuto questo romanzo?
A volte no, a volte, soprattutto nei dialoghi tra i due amanti, l'ho trovato insulso. Ma poi, ragionandoci sopra, la funzione delle battute scambiate una dietro l'altra di voci narranti che spesso si confondono hanno lo stesso scopo del flusso di coscienza del personaggio che narra, o delle descrizioni secche e rapide: rovesciare sul lettore un flusso ininterrotto di dettagli che riesca ad arrivare immediato e a colpire proprio in virtù di questa sua immediatezza.

Siccome la guerra inizia a prendermi, anche se non è la guerra dei romani e dei goti, ho iniziato a leggere un altro romanzo, questa volta raccontato dalla parte dei conquistati e occupati: Suite francese, di Irene Nemirovsky, ambientato non nella prima, ma nella seconda guerra mondiale, nel periodo dell'occupazione francese da parte dei tedeschi.
Non è male per il momento, anche se completamente diverso da Hemingway o da Alianello.
Ma di questo, probabilmente, ne parleremo più in avanti, a lettura finita.



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