lunedì 27 febbraio 2017

L'ispirazione: da dove tutto prende inizio



Non so se succede anche agli altri autori, ma io rimango spesso incantata da come le storie si impongano di testa loro, senza chiedere il permesso. E credo che proprio per questo loro carattere misteriosamente anarchico l'autore, ad un certo punto del ruminar meditativo che gli è proprio, arrivi a chiedersi:
  • da dove nasce la storia? 
  • il narratore: come si colloca rispetto alla sua narrazione?
Domande che non per tutti hanno la stessa valenza, e che spesso vengono lasciate in sospeso, magari giudicate persino riflessioni inutili.

Eppure qualcuno non solo prova a rispondersi, ma ci crea addirittura una concezione della scrittura che poi trasuda nei testi. Non mi riferisco solo ai grandi scrittori del passato, quelli che scrivevano per trasmettere il loro messaggio al mondo, ma anche ad autori a noi più contemporanei.
Per me è celebre il ragionamento sulla narrazione e sui personaggi di Stephen King, ad esempio. E non perché considero i suoi lavori "patrimonio dell'umanità", anche se devo riconoscere che ci sa fare, ma perché, in base alle risposte che si è dato, ha elaborato una concezione del processo creativo che potrebbe essere definita tranquillamente visione poetica. Cosa rara per un narratore di un genere minore come l'horror.
Vi risulterà strano che le opere di Stephen King che mi affascinano di più siano proprio quelle in cui si rispecchia maggiormente questa sua visione?

E allora, perché non provare anche noi a speculare, con umiltà, sulle stesse domande? Tanto per fare due chiacchiere, niente di più.

Si potrebbe iniziare dall'inizio, richiamando citazioni celebri alla mente.

1 In principio era il Verbo, 
il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio, 
2 Egli era in principio presso Dio: 
3 tutto è stato fatto per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
Vangelo di Giovanni (1, 1-3);

...la tua parola mi fa vivere.
Salmo 119:50;

Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu.
Genesi 1: 3.


La Bibbia. Ma soprattutto la Parola che crea, che dona vita.

E adesso non fate quella faccia. E non chiedetemi: "Ma non la stai prendendo un po' troppo alla lontana, forse?"
Forse.

Eppure io ho sempre trovato affascinante il fatto che una delle narrazioni più antiche della storia umana dia alla Parola, al Verbo e all'azione del dire una capacità creativa. Niente semiotica di base, o psicologia spicciola a quei tempi. Eppure gli ebrei di 3500 anni fa, data presumibile in cui la Bibbia ha iniziato a circolare come testo scritto, avevano già avuto l'intuizione sottile che Dio e il suo atto creativo fossero collegati in qualche modo alla capacità di parlare, di comunicare; di raccontare, se vogliamo.
Che poi il Verbo sia una traduzione del greco Logos, corrispondente al latino Ratio - Ragione, Logica - e che in teologia venga definito come Entità Ordinatrice eccetera, eccetera, o, se vogliamo prenderlo da un altro punto di vista ancora, che spesso il discorso ha proprio la capacità di dare ordine al pensiero, lo lasciamo in sospeso e magari ne riparliamo un'altra volta.

Per ora torniamo alla Parola che crea. E da qui, il passo successivo delle mie speculazioni potrebbe essere semplice, persino un po' banale:

Dio è un narratore. Il narratore è Dio.

Del resto, a paragonarsi al Creatore dell'universo non ci vuole tanto. Anche lo scrittore costruisce mondi e universi paralleli, anche lui dona vita a personaggi che esistono solo nella sua mente.

Eppure, nonostante io scriva e inventi personaggi tutti i giorni con un atto che potrei tranquillamente definire d'amore, non posseggo una presunzione tale da sentirmi pari a Dio. E questo perché il processo creativo è ben diverso dall'atto creativo in sé, tanto che non lo chiamerei nemmeno processo creativo, ma processo di svelamento.

A questo punto ci starebbe bene un bel titoletto in grassetto, se non fosse che non metto titoletti in grassetto nei post. Ma se li dovessi mai adottare, il titoletto sarebbe:

L'atto creativo e il processo creativo


Quando immagino l'atto creativo di Dio, vedo davanti agli occhi il Big Bang. Vedo quell'esplosione silenziosa che produce milioni di mondi come l'irradiazione di un pensiero, dell'Idea che sboccia nella mente del Creatore.
L'Idea si struttura nello spazio e nel tempo, costrutti speculativi visto che nella realtà divina il tempo e anche lo spazio non esistono (eterno e onnipresente danno l'idea di un Dio per cui le classificazioni spaziali e temporali umane hanno scarso valore); l'Idea germina di esseri di cui il Creatore vede l'inizio, la fine e persino lo svolgimento.

E il narratore, mi direte voi, non fa lo stesso?

No, il buon narratore non fa lo stesso.
Per quel che riguarda la mia esperienza, ma soprattutto quella di altri che considero buoni narratori, lo scrittore non crea la storia. Certo, anche lui vive l'esperienza di un Big Bang in miniatura nella sua testa. Quella è l'idea, la scintilla da cui tutto parte, che spesso rimane a torturarlo per mesi e anni prima di trovare compimento.

Ma l'idea non è la storia. L'idea è la punta dell'iceberg, la parte visibile di una vicenda che esiste già, seppellita da qualche parte, forse in un mondo delle idee divino. Essa aspetta solo di essere scovata e disseppellita.

E allora chi è il narratore?

Il narratore è il dissotterratore, perdonate il termine orribile che probabilmente non esiste nemmeno. È colui che possiede gli strumenti giusti per portare alla luce la storia: strumenti strettamente legati all'arte del raccontare, o a quella dell'investigare. Ma non ha altro merito, in fondo, se non quello di essere trovato dall'idea. Sì, perché spesso è l'idea che ti trova e che si appropria prepotentemente del tuo interesse, che ti tormenta e ti spinge a scrivere.

Questo è quello che mi è capitato con la storia sui barbari goti del mio primo romanzo, la storia che mi ha spinto a iniziare la mia avventura come scrittrice e che coltivo ormai da anni: un'eterna opera in divenire che prima o poi dovrò decidermi a lasciar andare. E tutto è nato da un piccolo dettaglio storico di scarsa importanza, un'idea che si struttura pian piano e che ti spinge a ricercare, a studiare, ad approfondire, per poi dispiegarsi in storie di storie, in cui personaggi vivi si fanno avanti e raccontano la loro esperienza e le loro avventure. Personaggi talmente vividi che seguono il loro percorso narrativo indipendentemente dalla volontà dello scrittore. Personaggi testardi, che ti ridono in faccia quando provi a farli ragionare e indirizzarli verso quello che sarebbe un finale d'effetto, o almeno una conclusione sensata.
Come la storia, loro erano già lì, parte di essa. Come la storia, non si possono piegare a leggi esterne al contesto in cui si muovono.

In mezzo a tutta questa anarchia di storie e personaggi, cosa rimane da fare allo scrittore?

Null'altro che trovare il modo migliore per narrare la vicenda. Questo è il mio compito, la mia missione, se vogliamo.

Ci sono riuscita? Sono riuscita a raccontare almeno una storia a gloria futura dei miei personaggi, come tanto bene dice il mio Einstein, lassù, nella citazione sotto il titolo del blog?

Questo non spetta a me giudicarlo. Perché è qui che entrate in scena voi, signori: il pubblico.




2 commenti:

  1. Sull'ispirazione c'è tanto da dire e secondo me non si arriva mai a una risposta certa. Di questo argomento parlerò un po' giovedì prossimo.
    E concordo che l'idea è sempre meglio di niente, ma è quasi davvero nulla in confronto al lavoro che si deve fare dopo.

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    1. Che l'idea sia poco meno di niente, sono completamente d'accordo. La punta dell'iceberg, appunto. :)

      Allora aspetto giovedì per vedere cosa pensi tu sull'ispirazione.

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