martedì 30 maggio 2017

L'onore e la gloria - prima parte

Unni

Perdonate il ritardo, ma tra ritorni a casa, malanni e ospedali, per non parlare di assenza di rete e altri guai, ci siamo ritrovati in ritardo su tutto.
In ogni caso,  ecco qui il racconto.
Per comodità lo leggeremo in due parti, una oggi e una il prossimo venerdì.
Ma basta chiacchiere. Ecco a voi:

L'onore e la gloria

Durante i primi decenni del VI secolo, l'Italia era una terra prospera. Un re goto vi governava con la benedizione dell'imperatore romano d'oriente. Ma alla morte del re goto la situazione politica degenerò in fretta. I nuovi imperatori iniziarono a coltivare il sogno di riunificare l'antico impero romano d'occidente sotto le loro insegne e una serie di guerre furono inaugurate contro i regni barbarici d'occidente. In Italia, la guerra durò diciotto lunghi anni. I goti vennero infine sconfitti, ma sacche di ribelli continuarono a imperversare sulla penisola ancora per anni. Negli anni del 560, il conte Widin e i suoi goti furono gli ultimi a opporsi al governo romano d'oriente e ai suoi corrotti governanti, mandati per rimpinguare le casse dell'impero e le loro stesse tasche a scapito della popolazione italica.

Le foglie dei platani salutavano il sole come fossero piccole manine che giocavano a imitare il volo delle farfalle: verde chiaro, verde scuro, verde chiaro, verde scuro...
Il bambino si alzò a sedere e guardò giù per la discesa erbosa, mentre si passava una mano sul capo per togliere le ultime spighette bionde tra i capelli. Gli altri erano corsi incontro ai cavalieri sulla strada in cerca di notizie dalla città. Ma lui non voleva sapere cosa succedeva altrove. Non aveva simpatia per i soldati. Non sopportava il loro modo di guardare lui, o sua sorella.


«Teagnir! Nandia! Gudila! Venite, ragazzi!»
Era la voce di Bade, amico e braccio destro di suo padre, che li chiamava. Si tirò lentamente in piedi, si strattonò la tunica sotto il ginocchio e scese senza fretta verso la corte della villa. Bade continuava a urlare il suo nome e quello dei suoi figli, ma lui non accelerò il passo. Non gli andava proprio di trovarsi davanti ai soldati.
«Ragazzo, dove sono i tuoi amici? Vi sto chiamando da ore!», lo apostrofò Bade quando lo vide arrivare. «Corri, fai portare del vino per gli ospiti».
«Ospiti?», ripeté lui timidamente.
I soldati, intanto, erano smontati da cavallo e si guardavano intorno scambiandosi battute e risate. Uno tra loro, quello vestito con la tunica chiara decorata di fili d'oro, restava un po' in disparte con pochi altri, in attesa che Bade gli rivolgesse di nuovo l'attenzione. Non sembrava un soldato. Avrebbe voluto chiedere a Bade, sapere chi fosse quell'uomo dal fare inusuale, ma i soldati iniziavano a passeggiare distrattamente verso di lui, e di sicuro lui non voleva restare lì e incrociare i loro sguardi.
Il bambino sgattaiolò in casa prima che i soldati gli si avvicinassero troppo, mentre Bade tornava a occuparsi dell'uomo dalla tunica dai ricami dorati.
La voce grossa di suo padre scuoteva le pareti del cortile interno: «Vengono da Ravenna?»
«Non so, signore, non hanno...»
«Quanti sono? Sono militari o ci sono anche ufficiali civili? Hanno delle missive o sono solo di passaggio?»
Le parole di suo padre si spensero lungo il colonnato del portico e la villa tornò quieta nella piacevole frescura della mattinata. Lui rimase in ascolto del rassicurante silenzio per qualche momento, ma poi ricordò gli ordini di Bade e riprese i suoi passi verso le cucine. No, non gli piaceva proprio avere gente di guerra in giro per casa.
«Maria, Bade vuole del vino per i soldati appena arrivati», disse, facendo appena capolino nella sala dai grandi fuochi.
«Soldati?», chiese la donna col grembiule. «Dove, quanti?»
«Fuori, una ventina, penso... non lo so», rispose lui, alzando le spalle.
«O Signore benedetto! Venti! E dove li mettiamo? Sono romani o goti? Devono essere romani, altrimenti Bade avrebbe chiesto della birra», continuò la matrona tra sé e sé.
Lui alzò ancora le spalle: «Non lo so, non li ho guardati».
Bade arrivò in quel momento: «Eccoti, infine! Dove sono quegli altri due?»
Lui lo guardò senza rispondere. Sapeva che non voleva saperlo davvero, che preferiva che i figli stessero il più lontano possibile quando uomini armati arrivavano alla villa, poco importava se goti o romani.
«Corri, corri agli alloggiamenti dei capannoni e avverti gli uomini di rimanere nascosti nei loro quartieri fino a nuovi ordini. Di' loro che ci sono dei greci armati in giro per la casa».
«Allora sono davvero romani?», si intromise la donna con aria allarmata.
Bade fece solo un cenno con la testa e lei si ritirò, strofinandosi le mani nel grembiule e vagando tra le pentole e i tegami in confusione, mentre un mormorio piagnucoloso le usciva dalla bocca sdentata.
«Corri, ragazzo!», lo fece sobbalzare d'un tratto l'uomo.
Lui scattò immediatamente e in un attimo si ritrovò fuori, nella corte. Lì rallentò la sua corsa, guardandosi intorno spaesato. Da che parte doveva passare? Di sicuro non gli andava di vedere gli uomini a cavallo – i greci, come il padre e Bade li chiamavano con disprezzo. Ma lui sapeva che loro si facevano chiamare romani e che lui e sua sorella non dovevano mai indirizzarsi a uno di loro dicendogli greco, perché se lo avessero fatto, quelli se la sarebbero presa davvero a male.
Sospirò pesantemente, guardandosi ancora intorno. Avrebbe fatto volentieri a meno di andare agli alloggi delle capanne, ma Bade aveva dato un ordine e se l'avesse ignorato quella spia di un goto lo avrebbe sicuramente riferito al padre; e lui sì che si sarebbe infuriato.
«Teagnir! Ehi, Teagnir!»
Qualcuno sussurrava il suo nome. Si guardò intorno, perplesso. Sapeva che erano Gudila e Nandia, ma non riusciva proprio a vederli. Poi un sassolino lo colpì alla testa. Lentamente, portò la mano alla nuca e, con uno scatto repentino, si voltò indovinando la direzione da cui la pietra era stata lanciata. Eccoli, quei due traditori pallidi, erano nascosti sotto il carretto!
Corse loro vicino, mentre i due bambini si rintanavano sotto il loro riparo segreto, presagendo i guai in cui si erano cacciati. Eppure, invece di piagnucolare e chiedere perdono, ridacchiarono di lui.
«Perché mi avete lasciato solo sulla collina?», li rimproverò.
«Sei tu che non sei venuto. Noi ti abbiamo chiamato».
Lui si sedette a gambe incrociate, imbronciato e con le mani conserte.
«Dai, non ti arrabbiare. Vieni qui sotto e aspetta con noi che i soldati se ne siano andati», disse Nandia strattonandolo per la tunica.
«Non posso. Ho una missione».
«Una missione?»
Lui annuì serio. «Devo andare ai capannoni».
«Ai capannoni? Ma lì ci sono...»
«Zitto!», lo fermò Gudila appena in tempo. «Papà non ti ha detto mille volte che non devi dirlo a nessuno?»
Nandia tacque al rimprovero di Gudila e nessuno di loro osò più parlare per un lungo momento, quasi temessero che orecchie invisibili potessero spiarli.
«Vado», esordì infine Teagnir, sospirando.
«Teagnir...», lo trattenne Gudila. «Stai attento, e quando hai finito corri a nasconderti con noi».
Teagnir gli sorrise annuendo e partì per la sua missione.

Non gli piacevano i romani, ma, a pensarci bene, gli piacevano ancor meno i goti.
Quando aveva detto a Ulfeda che gli dava fastidio avere soldati nei quartieri dei capanni, lei gli aveva chiesto il perché. Lui non aveva saputo bene cosa dire e alla fine lei aveva capito che era per il fatto che erano goti.
«Gudila e Nandia, e Bade non sono forse goti?», gli aveva fatto lei. Lui aveva annuito. «E loro ti piacciono?»
Anche questa volta aveva annuito. Ma era diverso, si era detto senza osare dar voce al suo pensiero davanti alla sorella. Era diverso, perché... era diverso e basta.
«Lo so,» aveva detto Ulfeda sospirando, quasi gli avesse letto nella mente. «Loro ci vogliono bene...»
«E non ci guardano come se fossimo degli esseri strani», aggiunse lui.
Ulfeda si voltò a guardarlo con un'ombra di sorpresa negli occhi: «Degli esseri strani?»
Lui annuì. «Sì, ridono della mia testa, dei miei occhi e poi fanno smorfie. Uno mi ha chiamato anche piccolo unno, ma non sembrava che usasse rispetto, come fanno con nostro Padre».
«E i romani?», chiese la sorella. «Loro ti guardano allo stesso modo?»
«Vuoi dire i greci?»
Ulfeda esitò, ma lui non aspettò la sua risposta. «Loro non sembrano far caso alla mia faccia. Bade dice che è perché nell'esercito imperiale ci sono molti unni e quindi loro sono abituati alle teste di cane».
«Bade ha detto teste di cane?», chiese la ragazzina sorpresa.
Questa volta fu lui a esitare: «No, uno dei goti nei capannoni, l'altra sera, gli ha chiesto se la testa di cane era il padrone qui. Poi io gli ho domandato cosa voleva dire, e lui mi ha spiegato che tra i romani e i goti ci chiamano così, perché la nostra testa è schiacciata come quella dei cani».
Ulfeda sembrava infuriata: «Va bene! La prossima volta che qualcuno dice una cosa del genere, tu gli devi spiegare che non è una cosa brutta, ma una cosa nobile avere la testa di cane, che solo i nuovi nati degli eroi, eredi di famiglie di stirpe divina, hanno il privilegio di portare fin dai primi giorni di vita le bende intorno alla testa che fanno il cranio alto, e che è simbolo di profonda intelligenza e saggezza..."
«Va bene», rispose lui mesto, non comprendendo perché la sorella se la prendesse tanto. Che poi, in effetti, un pochino la testa di loro padre ricordava quella di un cane. E forse anche la sua. Ma a lui piacevano i cani. Erano buoni guardiani e abili cacciatori. E poi ci si poteva pure giocare.
Adesso era davanti alla porta di uno dei capanni eletti a dormitorio per i soldati goti, rassegnato al fatto di dover compiere il suo dovere. Si fece coraggio e bussò con un colpo deciso e due più brevi. Nessuno rispose, ma dovevano averlo sentito, perché gli era sembrato di udire dei rumori soffocati all'interno.
«Bade dice di non uscire, ci sono soldati. Greci», sussurrò in goto. D'improvviso, la porta si socchiuse e due occhi azzurri lo fissarono stupiti.
«Cosa hai detto, ragazzino?», gli fece il goto nella sua lingua.
«Ho detto che Bade dice di non uscire, che verrà lui a dirvi quando i soldati se ne saranno andati».
Il goto lo fissò ancora un momento, quasi non avesse compreso nemmeno allora. Eppure gli aveva parlato nella sua lingua proprio per farsi capire meglio. Ma poi, finalmente, il soldato annuì e fece per tornare dentro.
Lui aspettò che la porta si richiudesse e solo allora saltellò via, verso la corte in cui Gudila e Nandia lo aspettavano.

Alla fine, i soldati romani non se ne erano andati come aveva sperato. Il padre aveva fatto preparare rinfreschi e ora parte dei militari, quelli dal grado più alto, erano nella sala grande a bere e a ridere con la stessa allegria selvaggia dei barbari. Con loro c'erano anche gli altri romani, quelli che non sembravano dei soldati. Loro non ridevano. Sorridevano appena, spostandosi sulle panche imbottite come se avessero male a star seduti, ma non per questo bevevano con più parsimonia. Probabilmente non erano abituati né al modo di sedere dei goti, che non amavano mangiare sdraiati sui divani come i romani, né al buon vino di suo padre.
Adesso si sentiva più tranquillo, non aveva più paura di farsi vedere. D'altronde, nessuno sembrava interessato a lui, e dopo un primo sguardo e qualche battuta scambiata tra di loro in una lingua che non conosceva, i soldati si erano dimenticati di lui.
«Abbiamo sentito dire che la signora non è in buona salute».
Aveva parlato quello che sembrava il capo dei greci e che tutti chiamavano segretario del governatore, il romano dalla tunica con i ricami dorati. Un uomo molto gentile, che sapeva rivolgersi al padre senza irritarlo. Lo vedeva dal modo in cui lui, il padre, gli rispondeva, annuendo serio. Quando invece era Teagnir a farlo arrabbiare, lui digrignava i denti e rideva minaccioso come se ringhiasse, ma sapeva che lo faceva per spaventarlo. Allora il bambino sapeva anche cosa dovesse fare: scappare veloce e non farsi prendere.
Col greco, invece, il padre annuiva solamente, in silenzio.
«Ci dispiace non poterle rendere gli onori e ringraziarla personalmente per l'accoglienza...»
«Le saranno riportati i vostri rispetti», lo interruppe seccamente. Fu a questo punto che iniziò a sospettare che dopotutto suo padre non trovasse poi così gradevole parlare con il capo dei greci, perché quasi subito chiamò Bade e si alzò dalla tavola.
«Mostra ai signori la tenuta. Il nuovo segretario del governatore mi scuserà se non vi seguo», disse, mentre già lasciava le stanze senza altre spiegazioni e tutti i greci lo seguivano con lo sguardo in un silenzio di pietra.
«Certo che il vostro signore ha maniere schiette e dirette», si lasciò sfuggire all'indirizzo di Bade il segretario.
«È un ottimo amministratore, completamente devoto a Costantinopoli», rispose il goto col suo latino sporco, quasi volesse usare questo argomento per scusarsi della frettolosa uscita del suo signore.
«Vedremo», rispose il greco, mentre il suo sorriso si faceva meno cordiale. «Sai bene che sono qui per stimare la tenuta. Bisognerà considerare le proprietà e il guadagno che ne è stato ricavato da quando l'ha avuta in concessione. Le tasse pagate ai ribelli goti durante la guerra non sono state registrate dal governo imperiale. Per farla breve, è come se non fossero state mai versate, e devono quindi essere risarcite al legittimo governo. Se il tuo signore è davvero così devoto, non ci saranno problemi e la faccenda sarà velocemente risolta».
Bade si oscurò in volto.
«Ma di questo vorrei parlare direttamente col signore della casa».
«Capisco», rispose il goto, alzandosi dalla tavola e facendo strada verso le stalle.
«Teagnir!», lo fece sobbalzare una voce da sotto il tavolo, «Se ne è andato?»
«Sì, potete uscire».
Gudila e Nandia sgusciarono dal loro nascondiglio sghignazzando.
«Avete visto la spilla sul mantello del greco? È persino più luccicante di quella di tuo padre, Teagnir!»
«E l'anello che portava al mignolo? Era sicuramente un rubino, e pure bello grande!»
Ma a lui non interessava la spilla, né l'anello di quello che tutti chiamavano segretario del governatore. Piuttosto si chiedeva dove Bade avrebbe condotto il greco e la sua scorta di soldati adesso. Non gli piaceva l'idea di vederli ficcare il naso in ogni buco di talpa della loro campagna.
«Andiamo anche noi con loro?», suggerì agli amici.
«Ma che dici! Seguirli?»
I due bambini goti si guardarono intimoriti negli occhi per poi scappare di nuovo sotto il tavolo. Lui sospirò, ma non li raggiunse. Di andare da solo dietro a Bade e al greco, non se la sentiva. Si incamminò invece verso gli appartamenti di sua madre. Sapeva che lei lo avrebbe ricevuto con piacere. E magari sarebbe riuscita anche a calmare quella stupida sensazione di disagio che non lo lasciava in pace.

«Voleva vedervi», sentì la voce profonda del padre venire da oltre le porte e per un attimo esitò sulla soglia. «Questi greci...»
«Sono curiosi», fece la madre senza espressione. Era in piedi accanto alla sedia su cui suo padre si era lasciato cadere pesantemente. Sembrava un angelo guardiano alle spalle di suo marito, bella e luminosa come il primo mattino.
«Non hanno mai visto un unno? O una gota?», fece lui, ancora alterato.
«Forse, ma non insieme, non come sposi».
Il padre sbuffò. Lei gli si avvicinò ancor di più e gli posò una mano leggera sulla spalla. Lui mosse il viso pieno di cicatrici vecchie quanto i suoi natali su quella mano esile e posò le labbra sulla sua pelle chiara.
«Quanto rimarranno ancora?», chiese lei, facendo sostare lo sguardo indecifrabile sul capo chino del padre.
«Li ho mandati in giro per la tenuta con Bade. Se non troveranno scuse per rallentare la visita, dovrebbero andarsene prima del calare del sole».
«Altrimenti?», la voce della madre sembrava preoccupata.
«Gli alloggi nei capannoni sono occupati dai goti di Widin, questo lo sapete. Se davvero i greci rimanessero, non sapremmo dove sistemarli per la notte».
«Ma rifiutare ospitalità ai rappresentanti dell'imperatore...»
Il padre rimase assorto per un lungo momento. «Dovremmo chiedere agli uomini di vostro fratello di partire subito».
La madre scattò, sorpresa. Anche Teagnir sobbalzò nel suo angolo, ma per fortuna nessuno dei due si accorse di lui.
«Hanno molti feriti con loro, saranno visti e tutti capiranno da dove vengono».
«Lo so, ma non c'è altra soluzione. Se i greci si fermeranno per la notte, dovremo pur metterli da qualche parte. E sono sicuro che quel lupo di un romano ci proverà in tutti i modi a restare il più a lungo possibile, per accertarsi che non gli teniamo nascosto nemmeno un covone di fieno».
Il padre si alzò dalla sedia e si allontanò dalla madre, per andare alla finestra. Dal suo cantuccio, Teagnir vedeva i raggi del mezzogiorno colpire l'unno in pieno volto. Il padre strinse gli occhi per ripararli dal sole e per un attimo fu come se essi scomparissero, nascosti dalle sopracciglia scure, ma non folte.
«Senza contare che prima o poi vorranno ispezionare i capanni», aggiunse quasi soprappensiero.
«Se collegheranno la nostra casa ai ribelli, saremo spacciati».
Il padre annuì gravemente.
«Ma forse se ne andranno...», aggiunse la madre con un velo di speranza nella voce.
Il padre la guardò in modo diverso, quasi fosse incerto su quello che dovesse risponderle. Poi i suoi occhi tornarono i soliti e lui parlò di nuovo.«Cercheranno di appurare le dimensioni dei nostri possedimenti, delle nostre ricchezze. Esamineranno fino all'ultimo granaio per accertarsi delle nostre dichiarazioni e tassarci secondo il giusto».
«Il loro giusto non è mai ragionevole, né nelle faccende di guerra, né in quelle dell'amministrazione», fece con spregio la madre.
Il padre non rispose.
«Cosa dobbiamo fare con gli uomini di Widin?», sussurrò lei dopo una lunga pausa.
«Aspetteremo fino a sera. Se col calar del buio i greci non se ne saranno ancora andati, li faremo scappare in qualche modo».
«E se quelli volessero controllare i capanni prima di notte?»
Il padre tacque ancora. A Teagnir sembrò che un sospiro fosse uscito dalle sue labbra. Ma probabilmente si sbagliava, perché i sospiri erano debolezze: solo le donne e i romani li facevano. Così gli aveva detto Gudila, una volta.
«Ci terremo pronti a ogni possibilità», sentì infine dirgli. La madre non gli rispose.

«Madre...», sussurrò Teagnir nella stanza in penombra. Il padre se ne era andato già da un po' e lui ne aveva approfittato per sgattaiolare nei suoi appartamenti.
«Dimmi», gli rispose lei mentre, seduta davanti alle sue ampolle e pomate, si guardava nello specchio decorato da pietre brune e gialle.
«Se i goti nei capanni vengono trovati, cosa succederà?»
Lei lo guardò dritto negli occhi. Forse non si era aspettata quella domanda. Forse non avrebbe dovuta porgliela.
«Non li troveranno», lo rassicurò lei, voltando lo specchio in modo che anche il suo volto vi si riflettesse. I loro occhi dello stesso colore del cielo si incrociarono sulla superficie d'argento. Solo che quelli di sua madre erano grandi, con ciglia chiare e lunghe a nasconderne le sfumature. I suoi erano piccoli e tagliati, come quelli di suo padre.
Portò un dito sullo specchio, cercando di toccare la magia del riflesso. Lei sorrise.
«Perché i miei occhi sono così strani?», chiese d'un tratto.
Lei sorrise ancora. «Non sono strani».
«Non sono goti e non sono unni. Gudila dice che è per questo che goti e greci mi guardano storto».
La madre gli pose una mano sulla testa e l'accarezzò lievemente. «La razza dei goti e quella degli unni» disse poi, «hanno trovato in te il loro campione. I goti vedono la tua superiorità e i greci ne hanno timore. Da grande farai grandi cose, come le ha fatte tuo padre».
«Ma lui adesso è un contadino e non c'è gloria nell'essere contadini».
Gli occhi della madre si contrassero; per un momento Teagnir ebbe paura che si fosse arrabbiata.
«Tuo padre fa quello che un uomo dovrebbe fare: pensa al bene dei suoi figli. È questo il più coraggioso degli atti per un guerriero: rinunciare alla propria gloria e persino all'onore, pur di assicurare loro il futuro più luminoso».
Bade non dice così», fece lui. «Lui dice che l'onore e la gloria vengono prima di ogni altra cosa».
La madre rise. «Eppure Bade è qui con noi e con i suoi figli, lontano dai campi di battaglia».
Teagnir cercò di decifrare le sue parole, di capire se ci fosse disprezzo o semplice divertimento nel suo riso.
«Allora, se Padre non combatte con nostro zio Widin, non è un traditore...»
«Traditore?», chiese la madre quasi offesa. «Chi ti ha detto...» Ma poi sembrò ripensarci e tacque, passandogli ancora una volta la mano sui capelli arruffati. «No, non è un traditore. Tuo padre è l'uomo più leale e fedele che tuo zio Widin abbia mai incontrato nella sua vita».
Teagnir sentì gli angoli della bocca allargarsi in un immenso sorriso e il suo petto si gonfiò di contentezza. Avrebbe dato un pugno sul naso a Nandia se avesse ripetuto quelle parole, poco importava se le dicesse per invidia, perché Bade era meno importante di suo padre.
«Adesso vai a giocare, Teagnir», gli fece la madre, divenuta distante d'un tratto. Lui sostò un momento, assalito da una sorta di sottile tristezza al pensiero di allontanarsi da lei, ma poi obbedì e la lasciò sola con i suoi pensieri.

Le ombre si allungavano sulla terra sempre più velocemente, quasi volessero scappare dalle forme dei corpi che le calpestavano.
I romani non erano ancora tornati dal giro nei campi, eppure c'era un insolito movimento nella corte. I cavalli venivano sellati e gli inservienti correvano da una parte all'altra, senza fermarsi a rispondere alle sue domande.
«Teagnir!»
Si voltò e vide Nandia che gli faceva segno di avvicinarsi.
«Cosa sta succedendo?», gli chiese raggiungendolo vicino alle stalle.
«I goti se ne vanno. Sembra che nostro padre abbia mandato qualcuno a informare il tuo che il governatore e i suoi greci ci metteranno più del previsto a fare il giro della proprietà».
Lui si guardò intorno, confuso. Capiva che questo non era buono e che i goti dovevano andarsene in fretta, ma cosa doveva fare, lui, adesso?
«Dov'è mio padre?», chiese a Nandia guardandosi intorno.
«È andato verso gli alloggi dei capanni...»
Senza attendere che Nandia finisse, Teagnir corse via attraverso la corte.


Fine prima parte


2 commenti:

  1. Ma questo è il primo tuo racconto che mi hai fatto leggere?
    Perché non lo hai mandato alla Delos?

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    1. Si', lo hai letto. Alla Delos non l'ho mandato perche' troppo lungo e non sono sicura trattino il genere: troppo storico! In ogni caso mi fa piacere pubblicarlo qui. Parlo tanto della mia scrittura e da dove prendo ispirazione che mi sembra giusto anche raccontare cosa ne esce fuori, no? 😊

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