venerdì 2 giugno 2017

L'onore e la gloria - seconda parte


Oggi è il turno della seconda parte del racconto iniziato martedì scorso, L'onore e la gloria. 
Durante i primi decenni del VI secolo, l'Italia era una terra prospera. Un re goto vi governava con la benedizione dell'imperatore romano d'oriente. Ma alla morte del re goto la situazione politica degenerò in fretta. I nuovi imperatori iniziarono a coltivare il sogno di riunificare l'antico impero romano sotto le loro insegne e una serie di guerre furono inaugurate contro i regni barbarici d'occidente. In Italia, la guerra durò diciotto lunghi anni. I goti vennero infine sconfitti, ma sacche di ribelli continuarono a imperversare sulla penisola ancora per anni. Negli anni del 560, il conte Widin e i suoi goti furono gli ultimi a opporsi al governo romano d'oriente e ai suoi corrotti governanti, mandati per rimpinguare le casse dell'impero e le loro stesse tasche a scapito della popolazione italica.
Riassunto della puntata precedente: In una cascina dell'Italia settentrionale, il piccolo Teagnir, figlio dell'unno e della gota proprietari della tenuta e simpatizzanti dei ribelli, vede arrivare un funzionario romano con un manipolo di soldati per scorta. Nei loro capanni sono nascosti un gruppo di goti ribelli. Riusciranno, Teagnir e i suoi, a tenere nascosti i soldati goti ai loro nemici? 

Il padre parlava in goto ai soldati. La sua voce sembrava calma, ma lui sapeva che stava solo nascondendo la sua ira. Il goto lo parlava solo con sua madre e mai con nessun altro, nemmeno con lui. Doveva essere davvero esasperato dalla loro stupidità per rivolgersi a quei soldati nella loro lingua.

«Non possiamo partire con gli uomini in queste condizioni. Almeno una decina di loro non è in grado di cavalcare. Dovremmo forse lasciarli per strada?».
«Se rimanete qui, i greci vi troveranno e ci uccideranno tutti. Saranno degli uomini morti comunque».
Il goto fece una smorfia di disprezzo, ma il padre la ignorò.
«Allora cosa ci consigli di fare, di ucciderli con le nostre mani, per salvarci la vita? Nemmeno un cane...» Il goto si trattenne davanti all'espressione glaciale del padre.
Questi era il più minuto tra i due, ma con quella sua freddezza negli occhi e la determinazione nel cuore sembrava molto più terribile di tutti quei grossi goti messi insieme. Per un attimo il suo petto si gonfiò di orgoglio: suo padre, il grande eroe che avrebbe sempre protetto i suoi.
«Potremmo semplicemente affrontarli. Del resto non sono molti più di noi», propose il goto, sostenendo lo sguardo di suo padre.
Il padre lo chiamò idiota, ma nella sua lingua e nessuno, a parte lui, lo capì.
«Non metterò a rischio la mia famiglia per proteggere dei soldati già morti», gli disse tornando al latino, perché fosse chiara la risolutezza della sua decisione. «Nemmeno Widin approverebbe una simile pazzia. La mia fattoria rappresenta un'ottima copertura per i ribelli».
«Come la tua, ce ne sono molte. Sarebbe da vigliacchi...»
Il padre colpì il goto con un pugno dritto sul naso. Rapido, preciso, violento.
«E adesso andatevene via. Dite a Widin che sua sorella lo saluta e che suo cognato gli augura una lunga vita, ma che non accetteranno più nessuno dei suoi nella loro casa».
«Stai facendo un grosso errore, unno», gli ringhiò contro il goto, mentre due dei suoi lo aiutavano a sollevarsi da terra e gli altri sguainavano le spade. Il padre non li degnò nemmeno di uno sguardo, quasi non esistessero.
«Sbrigatevi, ora. I greci saranno qui presto».
Senza curarsi degli uomini armati, diede loro le spalle e si allontanò a passi misurati e sicuri. I goti rimasero inchiodati sul posto, con le loro spade in mano, le mascelle contratte e le facce furiose. Non avrebbero potuto far altro che obbedire.

Teagnir non sapeva cosa pensare. I goti erano i compagni di zio Widin. Erano i buoni, coloro che lottavano contro gli invasori romani. I romani, invece, erano quelli che si prendevano le terre dei goti e degli italiani, che li trattavano come servi e rubavano i loro denari per portarli all'imperatore dall'altra parte del mondo. Era eroico o no cacciare i buoni e accogliere i cattivi? Non era forse più giusto combattere al fianco dei buoni, a ogni costo?
«E se per combattere con i buoni morissimo tutti?», chiese Ulfeda guardandolo negli occhi. «Lo sai cosa fanno alle donne e ai bambini, questi greci?»
Lui rabbrividì.
«Anche nostro padre preferirebbe combattere, ne sono certa. Ma lui pensa alle donne e ai bambini della nostra casa».
«Ma nostro padre è forte, potrebbe ucciderli tutti con una sola freccia».
«Sciocco!», gli gridò dietro la sorella. «E dopo, che succederebbe? Non lo sai che tutta l'Italia è piena di greci? Se anche riuscisse a uccidere questi venti, ne verranno altri, e altri, e altri...»
«Ma zio Widin...»
«Cosa può fare zio Widin contro tutto un esercito romano?»
Lui abbassò lo sguardo. Non gli piaceva, non era giusto, ma forse Ulfeda aveva ragione. Forse non c'era altro da fare che cacciar via i buoni e restare in silenzio davanti ai cattivi.
"Ma quando sarò grande...", pensò segretamente, mentre usciva dalle stanze della sorella.

Osservava ormai il padre da un bel po' di tempo, aspettando che si voltasse e lo vedesse. Ma lui rimaneva immobile alla sua finestra, a fissare i goti che si preparavano alla partenza.
«Padre», sussurrò infine.
Le sue ampie spalle si irrigidirono, quasi fosse stato colto in flagrante, ma quando si voltò non sembrò infastidito nel vederlo.
«Sei qui», gli disse solamente.
Lui si fece più vicino. Anche il padre si mosse, quasi gli stesse andando incontro, ma prima di raggiungerlo si sedette sulla sua sedia, quella che ricordava il seggio del capo della tribù dei loro avi. Il rumore del legno che si piegava sotto il suo peso fu solamente in parte attutito dalle pelli di cervo che lo coprivano. Con le gambe un po' larghe e la schiena gettata all'indietro, il padre si batté il palmo della grossa mano sulla coscia, un paio di volte. Lui obbedì e gli saltò addosso con tutta la spinta che poteva darsi. All'impatto del suo corpicino contro il petto robusto dell'unno, il padre fece una smorfia e sbuffò rumorosamente tutta l'aria dai polmoni, ma poi gli arruffò i capelli e lo strinse forte, come faceva quando era piccolo. Rimasero così, in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri.
«Padre, perché i soldati goti si devono nascondere?», gli chiese infine.
Il padre non rispose subito, quasi stesse soppesando le sue parole. «Tu lo sai che adesso i padroni di questa terra sono i romani».
Teagnir fece un cenno con la testa: lo sapeva.
«Fino a qualche anno fa non era così. I goti erano i legittimi sovrani. Poi l'imperatore romano d'oriente decise che l'Italia era sua e mandò un'armata sconfinata a conquistarla».
«È stato allora che tu sei arrivato qui».
Il padre annuì.
«Sei caduto in un buco della terra...»
«Crepaccio», lo corresse lui.
«...e i goti ti hanno salvato, ti hanno portato davanti al loro re e ti hanno detto...»
«Scegli», lo interruppe di nuovo il padre, fingendo una voce di tuono che non gli apparteneva, «o giuri fedeltà al sovrano dei goti, o ti taglieremo la gola».
Lui rimase pensieroso. Il padre lo osservava, dapprima sorridendo, poi facendosi pian piano più serio.
«Cosa c'è?»
«Ma se prima eri romano e poi sei diventato goto, non è come tradire?»
Il padre guardò davanti a sé, il fantasma del sorriso ancora sugli angoli della bocca. «Tuo padre è un unno, né un romano, né un goto. Tuo padre ha combattuto con i romani per denaro, perché l'anziano della sua tribù aveva deciso questo per lui. E poi ha combattuto al fianco dei goti, perché questo è quello che tuo padre ha deciso per sé».
«Perché i goti erano i buoni?»
Il padre esitò: «In guerra è difficile dire chi sia il buono e chi il cattivo», sussurrò talmente piano che lui non riuscì quasi a capire.
Il padre lo fissò per un momento studiando i suoi pensieri, e quando lo vide turbato dalle sue parole, aggiunse: «È così, piccolo Teagnir, tuo padre ha deciso di restare con i buoni».
Lo sapeva, si disse felice, il padre era con i buoni.
«Che è successo poi a quel re a cui hai giurato fedeltà?», chiese dopo un momento.
«È morto, in battaglia».
«E poi?»
«E poi un altro re è arrivato, e anche lui è morto. E i romani hanno preso l'Italia».
«Ma non è giusto!»
Il padre non rispose.
«Ed è a questo punto che è arrivato zio Widin?»
Il padre fece un cenno col capo.
«E lui, una volta sconfitti i romani e rimandati a casa loro, diventerà re?»
Il padre sorrise: «Forse».
«Se lui diventasse re, io sarei... sarei...»
«Saresti un piccolo unno disobbediente, come sempre», rise di gusto suo padre. Gli piaceva, suo padre, quando rideva così. Diventava bello. Ma una voce dalla corte lo chiamò e lui si alzò di scatto, facendolo quasi cadere dalle sue ginocchia.
«Signore!», era Arinia, il guardiano delle scuderie che lo chiamava, «cavalieri, una cinquantina, romani! Arrivano dalla via di Ravenna».
Il padre si voltò, si precipitò verso di lui. Nei suoi occhi c'era ben più che sorpresa: allarme.
«Adesso vai, piccolo, vai da tua sorella e dille di prendere un paio di coperte. Poi, insieme, uscite di casa dalla porta segreta e correte nel bosco. Nascondetevi lì fino a quando qualcuno non verrà a riprendervi.
«Ma...»
«Niente ma, obbedisci!»
L'urlo di suo padre lo spaventò molto di più che i goti e i romani messi insieme. Si voltò di scatto e corse via, cercando di stringere la gola e non far salire il pianto che già gli solleticava le ciglia.

«Teagnir!»
Teagnir correva per la sala in ombra verso il cortile da dove i rumori venivano più forti. Aveva cercato Ulfeda nella sua stanza, ma lei non c'era, e adesso si chiedeva cosa dovesse fare.
Mise il piede oltre la soglia che si affacciava sulla corte e d'un tratto si ritrovò spaesato. C'erano solo grida intorno: gote, latine, greche. Qualcuno correva; altri, a cavallo, combattevano, e dal fondo della corte diventata un'arena risuonavano le urla dei feriti. Da dove erano usciti tutti quei soldati? Gli sembrò di essere capitato in una delle battaglie che suo padre gli raccontava. Suo padre! Dov'era suo padre?
Lo cercò con lo sguardo frenetico, ma lui sembrava scomparso. Il panico gli serrò la pancia e per un attimo fu tentato di tornare indietro, correre da sua madre. Ma poi, sotto il porticato su cui si affacciavano le sue stanze, la vide gridare il suo nome e con lei c'era Ulfeda. Doveva raggiungerle, doveva proteggerle.
Un nuovo rumore di cavalli giunse dalla strada verso le campagne e lui scattò in quella direzione. Era Bade, di ritorno con il segretario del governatore e i suoi soldati. Appena il goto si accorse del trambusto, non esitò a sfoderare la spada e con un solo fendente sgozzò il soldato della scorta romana alla sua destra. Il greco dalla tunica bianca e i fili dorati, solo qualche passo più indietro, strillava e si accasciava tremante sulla sella come una donnina.
Teagnir voltò di nuovo lo sguardo verso la madre e Ulfleda: erano ancora lì, sole. Doveva raggiungerle, si ripeté stringendo i denti.
Si costrinse a muoversi, senza saper bene da che parte andare per evitare la massa dei soldati, e in un momento si ritrovò tra le zampe dei cavalli eccitati dall'odore del sangue. La paura divenne terrore e la prima cosa che gli venne da fare fu quella di nascondersi sotto il carretto in mezzo alla corte. Fu stupito di non trovarci Gudila e Nandia.
Un tonfo vicino lo fece sobbalzare. Senza volere, un gridolino gli sfuggì dalla bocca. Un cavaliere senza colori era caduto proprio davanti al suo nascondiglio e adesso stava lì, immobile, con la bocca spalancata e gli occhi vuoti. La spada gli era scivolata dal pugno aperto, a pochi passi da lui. In un istante, senza quasi sapere come, Teagnir si ritrovò l'elsa tra le mani. Era viscida, imbrattata di sudore, o forse sangue. La strinse forte al petto, ignorando la sensazione sgradevole sulle dita, e rimase fermo con lo sguardo fisso contro il legno sporcato di fango che lo nascondeva dal cielo sopra la battaglia. Respirava a fatica, ma il freddo della lama sul petto lo tranquillizzava un poco. Era un nobile goto, un eroe unno, il campione delle due razze, si ripeté sottovoce.
«Teagnir!»
Padre? Era lui che lo chiamava?
Si affacciò dal suo nascondiglio e lo vide, saldo in sella con la spada alta. Con un fendente atterrò un romano, ma un altro gli si fece contro senza lasciargli il tempo di ricomporsi. Lo scudo di suo padre deviò la lama nemica e la respinse, riuscendo persino a disarcionare il suo cavaliere. Un altro gli si parò di fronte, e un altro ancora, ma lui li falciava tutti.
Ma dove erano finiti i goti? Dov'erano i buoni? C'era solo suo padre tra decine di nemici spuntati dal nulla.
«È una trappola!», urlò Bade. «Ce ne sono altri che arrivano!»
La voce della madre lo richiamò da un'altra direzione: cercava di farsi strada tra i cavalli per raggiungerlo, ma un romano la vide e la minacciò con la lancia. Anche Ulfeda era lì, nascosta dietro di lei.
«So cosa fanno alle donne e ai bambini, Ulfeda», si disse rabbioso. Ma lui era un eroe delle due razze tra le più nobili di tutte, lui avrebbe salvato donne e bambini.
Con la spada levata in alto come suo padre e i denti digrignati in un urlo rabbioso, corse fuori allo scoperto e si avventò sul cavallo che calpestava sua madre. Riuscì a ferire l'animale alla gola, a farlo retrocedere, ma un colpo di lancia lo trafisse prima che potesse colpirlo ancora, e Teagnir cadde a terra, senza dolore, gli occhi aperti e grandi come quando cercava di imitare l'espressione di sua madre. Lei, riversa a terra poco più lontano, lo guardava. Le lacrime le scendevano dalle ciglia, belle e chiare. Era orgogliosa di lui?
Un urlo lancinante cadde loro addosso. Era il padre, corso lì a salvarli. Lo vide scivolare giù dalla sella con l'agilità dell'acqua sulle rocce. Non aveva mai visto il suo viso così trasformato. Era fierezza per il suo coraggio? O forse disappunto per il suo fallimento?
«Ti ho deluso, padre?», gli sussurrò, spaventato.
«Figlio mio», gli rispose nella sua lingua, accarezzandogli la guancia, «come puoi pensare questo?»
D'improvviso, un romano spuntò con una lancia puntata alle spalle del padre che lo proteggevano dal resto dei nemici. Avrebbe voluto alzarsi e deviare il colpo, o almeno avvertirlo, ma la voce non riuscì a venir fuori e le gambe non volevano muoversi. Quando la lama trafisse la schiena che lo aveva portato mille volte, nemmeno un suono uscì dalle labbra di suo padre. Continuava a fissarlo con un sorriso un po' triste, e lui sostenne grato quel suo sguardo, fino a quando le palpebre gli calarono pesanti sugli occhi, come quando si addormentava dopo una giornata passata al fiume a cacciare i pesci grassi con l'arco, e i rumori intorno si affievolirono fino a scomparire.
I romani presero prigionieri i goti rimasti in vita. Bade e i suoi figli Gudila e Nandia erano tra questi. Alcuni goti riuscirono a mettersi in salvo. Quando avvertirono degli accadimenti Widin, il nobile goto a capo dei ribelli, egli in persona corse sul luogo. Trovò in un angolo della corte, uno al fianco dell'altro, i corpi dell'unno Gansūkh , della moglie Melitha e dei loro due figli Teagnir e Ulfeda. Con loro c'era anche il corpo di una gota, probabilmente ancella della casa, e di due uomini della guardia. Widin scavò le loro tombe con le sue stesse mani. Pianse a lungo sul corpo dei suoi parenti e solo quando la notte coprì le miserie della terra il nobile riprese la sua strada, col suo seguito.

Fine



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